28 ottobre 1922

Quando lo Stato si consegnò al fascismo

La rivoluzione nazionale si è compiuta e si compie in nome dell’Italia e del Re. Se questo è stato possibile, è stato generosamente per virtù della monarchia.
Editoriale La rivoluzione nazionale, in “L’Idea Nazionale”, 30 ottobre 1922.

Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. […] Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di istigare il Fascismo. Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.
Benito Mussolini, discorso in Parlamento d’insediamento come Primo ministro, 16 novembre 1922.
Benito Mussolini con le Camicie Nere durante la Marcia su Roma, 1922
Benito Mussolini con le Camicie Nere durante la Marcia su Roma, 1922
Che cosa fu la marcia su Roma? Una semplice crisi di Governo, un normale cambiamento di ministeri? No. Fu qualche cosa di più. Fu una insurrezione? Sì. Durata, con varie alternative, circa due anni. Sboccò questa insurrezione in una rivoluzione? No. Premesso che una rivoluzione si ha quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato, bisogna riconoscere che da questo punto di vista il fascismo non fece nell’ottobre 1922 una rivoluzione. C’era una monarchia prima, e una monarchia rimase dopo.
Benito Mussolini, Il tempo del bastone e della carota, in “Corriere della Sera”, estate 1944.

Una concessione del re, una rivoluzione armata, un’insurrezione risolta per vie istituzionali.
A cento anni dall’ottobre 1922, le parole dei vincitori di allora non aiutano a cogliere la reale natura della marcia su Roma: pur essendo stata la pietra angolare su cui il regime fonda per vent’anni il mito del fascismo – secondo quanto sostenuto vent’anni dopo dallo stesso Mussolini – ebbe più la forma di un passaggio consensuale di poteri piuttosto che di una presa rivoluzionaria del potere.
In pochi mesi del 1922 la fragile e incompiuta democrazia del giovane Regno d’Italia è scivolata verso la dittatura, senza che il quadro istituzionale abbia subito alcuno stravolgimento.

Adunata degli Arditi, Roma 1920
Adunata degli Arditi, Roma 1920

A cento anni di distanza la tenuta delle nostre democrazie passa anche dalla capacità di leggere quegli eventi, di coglierne continuità e rotture, di coltivare una memoria utile alla costruzione di una società sempre meno diseguale e più giusta.

L’Italia uscita dal primo conflitto mondiale è un paese in ebollizione: la guerra ha assuefatto alla violenza milioni di persone, le disparità sociali sono cresciute a dismisura e la conflittualità è a livelli altissimi, mentre si estende l’organizzazione politica e sindacale delle masse.
Di contro le istituzioni liberali sembrano non tenere il passo dei cambiamenti in corso: la politica che si fa in Parlamento è sempre più lontana da quella delle piazze come dimostrato dalla caducità dei governi che si susseguono.

Manifesto dei Fasci italiani di combattimento pubblicato su Il Popolo d'Italia
Manifesto dei Fasci italiani di combattimento pubblicato su "Il Popolo d'Italia"

Esaurito lo slancio rivoluzionario del biennio rosso del 1919/1920, quelli che sono ancora i Fasci di combattimento si candidano a prendere la scena.
Dopo l’ingresso in Parlamento nel maggio 1921 nelle liste del Blocco nazionale giolittiano, nel pieno dell’ondata squadrista il movimento si fa partito: nel novembre 1921 nasce il Pnf, in pochi mesi le sezioni sono triplicate e gli iscritti a maggio 1922 sono più di trecentomila.

In Parlamento ci sono appena 35 camicie nere, i socialisti sono il triplo e rappresentano il primo partito nel paese. Il Psi è però indebolito dalla scissione comunista e dalle lotte intestine fra i massimalisti di Serrati e i riformisti di Turati, Treves e Matteotti, contrasti che si risolveranno con l’espulsione di questi a poche settimane dalla marcia fascista.

La sede del Partito Nazionale Fascista presso il Palazzo Braschi, Roma
Roghi durante la Marcia su Roma
Militi fascisti e camicie nere milanesi in partenza per la marcia su Roma, ottobre 1922
Mussolini con i quadrumviri sfila in una via di Roma tra le camicie nere [Fonte Archivio Luce]

Il fascismo del biennio 1921/1922, nonostante sia la principale causa di disordini e violenze, è un polo d’attrazione irresistibile per gli ambienti conservatori del paese, spaventati soprattutto dalla prospettiva – ormai improbabile – di una rivoluzione sociale.

Desideriamo ardentemente ci sia un partito, e sia quello il fascista, se altri non sa far meglio, il quale usi mezzi adatti per raggiungere lo scopo che è la grandezza materiale e spirituale della Patria.
Luigi Einaudi, in “Corriere della Sera”, 28 ottobre 1922.

La prova più evidente è certamente l’atteggiamento delle forze dell’ordine e dell’esercito.
Ovunque si sviluppino mobilitazioni contadine e operaie o si verifichino scontri fra opposte fazioni la sproporzione di arresti fra esponenti delle sinistre e fascisti è enorme.
La detenzione per le camicie nere è spesso una questione di ore:

quasi sempre agli arresti seguono le mobilitazioni squadriste che in moltissimi casi ottengono il rilascio dei prigionieri da parte delle autorità. La magistratura contribuisce all’impunità fascista: a fronte della celerità dimostrata nella repressione del movimento contadino e operaio degli anni precedenti, i tempi dei processi per le violenze fasciste si dilatano a tal punto che gran parte delle sentenze sono emesse dopo l’ottobre 1922.

I rarissimi episodi in cui le forze dell’ordine usano uno stesso metro di giudizio e d’azione diventano casi nazionali – Sarzana luglio 1921, Parma agosto 1922 – e le camicie nere cadute assurgono a «martiri della rivoluzione fascista» in corso.
Già una circolare del 24 settembre 1920 dell’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore dell’esercito, antenato dei servizi segreti militari, aveva invitato i corpi d’armata a considerare i fascisti «forze vive da contrapporre eventualmente agli elementi antinazionali e sovversivi» e a mantenere canali comunicativi con i dirigenti dello squadrismo.

Parma, Oltretorrente, barricate in via Bixio, agosto 1922
Parma, Oltretorrente, barricate in via Bixio, agosto 1922 [Archivio Foto Amoretti]

Nel 1922 è chiaro come ai vertici del Regio Esercito numerosi generali, fra cui il vincitore di Vittorio Veneto Armando Diaz, costituiscano un gruppo di pressione filofascista che ha il suo peso nell’influenzare la corona.
Il salto di qualità avviene a partire dall’estate 1922 quando in tutta Italia le squadre fasciste riescono ad avere accesso ad armamenti ed equipaggiamenti militari: assalti senza colpo ferire, furti anomali quando non vere e proprie consegne dirette di armi si moltiplicano grazie alla complicità di soldati e ufficiali e alle coperture garantite dai prefetti e dal Ministero della guerra.
La saldatura definitiva arriva con la risposta di Mussolini su “il Popolo d’Italia” alla lettera che alcuni generali hanno indirizzato a “Il Giornale d’Italia” nell’agosto 1922: il fascismo non intende rovesciare la monarchia e anzi agisce per conto e nel nome del sovrano e del suo esercito per riportare l’ordine nel paese.

Armando Diaz
Armando Diaz, Capo di Stato maggiore del Regio Esercito
Il "Popolo d'Italia", 31 ottobre 1922
"Il Popolo d'Italia", 31 ottobre 1922

Se il sostegno delle forze armate è tanto concreto quanto non dichiarato, quello dei principali esponenti del capitalismo italiano è tutt’altro che nascosto. Tutti i grandi gruppi industriali arricchitisi enormemente durante la guerra – Ansaldo, Fiat, Edison, Ilva, Breda, ecc. – finanziano il giornale e l’organizzazione di Mussolini e dichiarano esplicitamente il proprio appoggio, come fa il presidente di Confindustria Ettore Conti, sganciandosi così dagli ambienti liberali.
Molto spesso le figure chiave di questi rapporti sono alti ufficiali dell’esercito ancora in servizio, in altri casi sono importanti gruppi bancari a investire fortemente su quello che sembra il cavallo vincente. Nelle campagne tosco-

emiliane in particolare, gli agrari arrivano a regolare con tariffari informali il costo delle violenze fasciste contro le agitazioni contadine e le istituzioni locali a guida socialista, oltre a rifornire le squadre con mezzi e armamenti.
Sul carro del presunto vincitore c’è spazio per tutti, anche per chi si fa la guerra da secoli. Gran parte della dirigenza squadrista è iscritta alla massoneria, da Balbo a Costanzo Ciano, da Bottai al futuro assassino di Matteotti, Amerigo Dumini, mentre in alcune zone preti e persino vescovi aprono letteralmente le porte delle chiese alle camicie nere. Succede nel novembre 1921 al Duomo di Milano dove il cardinale Achille Ratti, futuro papa Pio XI, non risparmia encomi per il futuro duce.

Il funerale di Giacomo Matteotti a Fratta Polesine
Il funerale di Giacomo Matteotti a Fratta Polesine [Fonte Casa-Museo Giacomo Matteotti]

Il susseguirsi caotico di violenze e disordini in un quadro politico in perenne evoluzione assume, dalla primavera del 1922, i contorni di un piano preciso mentre fra gli avversari del fascismo cresce la confusione.
A febbraio il giolittiano Luigi Facta è subentrato all’ex socialista Ivanoe Bonomi alla guida di una maggioranza governativa composita, di cui fanno ancora parte i fascisti. Su “il Popolo d’Italia” i riferimenti a colpi di stato si alternano alle rassicurazioni di Mussolini mentre nelle campagne e nelle grandi città del centro-nord le strutture sociali e politiche della sinistra crollano una dopo l’altra. Finanziati e armati, dotati di automobili, camion e spesso vagoni ferroviari dedicati, i fascisti attaccano tutti i grandi

e i piccoli centri urbani amministrati da socialisti, repubblicani, e qualsiasi altra formazione non liberale. Di paese in paese sono occupati gli uffici comunali e talvolta questure e prefetture, vengono date alle fiamme case del popolo, leghe sindacali e circoli social-comunisti e cattolici. Una volta occupate, le istituzioni locali vengono sistematicamente commissariate dall’autorità centrale che dispone il passaggio di poteri dalle autorità civili elette democraticamente a quelle militari. Gruppi relativamente piccoli di squadristi, grazie all’eccezionale mobilità di cui dispongono, riescono a concentrare gli sforzi su un centro dopo l’altro, annullando anni di partecipazione democratica delle masse in province e regioni intere.

Italo Balbo e i fascisti alla conquista di Ferrara, 1922
Italo Balbo e i fascisti alla conquista di Ferrara, 1922

È quanto avviene fra l’11 e il 13 maggio nella provincia di Ravenna dove le squadre di Italo Balbo chiamate dagli agrari locali prendono prima il controllo del capoluogo e poi sistematicamente di tutti i centri fino a Ferrara. Quando, a fine luglio, si riaccende la vertenza fra contadini e agrari è la questura di Ravenna a fornire i camion con cui le camicie nere seminano il terrore in tutta la provincia.
Il 19 maggio cade Rovigo, collegio elettorale di Giacomo Matteotti, dopo che nel corso del mese precedente tutti e sessanta i centri della provincia amministrati dai socialisti sono stati occupati senza che le forze antifasciste siano riuscite a radunarsi e difendersi.

Il mese, inaugurato con un 1° maggio di violenze anti socialiste in tutto il centro-nord, si conclude con l’invasione di Bologna dove le squadre calate da tutta l’Emilia-Romagna e guidate da Balbo, Leandro Arpinati e Dino Grandi impongono con violenze di ogni genere la rimozione del prefetto Cesare Mori, giudicato troppo ligio nella sua opera di pacificazione della regione.
Ai fascisti va peggio il tentativo di celebrare a Roma, il 24 maggio, l’anniversario dell’ingresso nella prima guerra mondiale. In quel caso alle loro scorribande seguono duri scontri nei quartieri popolari della città, da San Lorenzo a Testaccio: un precedente che i dirigenti del Pnf terranno ben a mente cinque mesi dopo.

Al congresso del PNF a Napoli nell'ottobre 1922. A sinistra il generale Emilio De Bono, al centro Mussolini, con Italo Balbo alla sua destra e Cesare Maria De Vecchi alla sua sinistra

È il confronto fra la determinazione e la coesione di chi vuole stroncare ogni mobilitazione contadina e operaia, da una parte, e l’estrema atomizzazione delle forze social-comuniste dall’altra, schiacciate di città in città, sono messe in discussione nella loro stessa esistenza insieme con lo stato di diritto, riscritto nei fatti dalla violenza fascista e dalla passività delle istituzioni.
Un tardo tentativo di risposta unitaria è la proclamazione di uno «sciopero legalitario» dal 31 luglio 1922 da parte dell’Alleanza del lavoro – unione di diverse sigle sindacali nata pochi mesi prima. Nonostante l’alto tasso di adesione, specie al Nord, l’iniziativa si rivela un gigantesco assist per il fascismo che ha l’opportunità di affermarsi come unico difensore dell’ordine nel paese. Nei giorni dello sciopero la violenza squadrista è al suo apice.

I morti fra gli animatori della mobilitazione sono decine e non si contano gli incendi delle camere del lavoro dalle Marche al Veneto, alla Lombardia. I fascisti, sostenuti in quei giorni dai principali organi di stampa, organizzano squadre di crumiri per rimpiazzare gli scioperanti, specie nel settore dei trasporti, minacciando di sostituirsi allo Stato qualora esso si dimostrasse incapace di fermare la «scioperomania».
I disordini di quei giorni e l’assoluta incapacità di mediazione del governo portano, il 2 agosto, alla costituzione di un secondo esecutivo Facta. Ma un dato su tutti dimostra come in quei mesi le sorti del paese non si decidano più a Montecitorio: dopo la seduta del 10 agosto in cui è votata la seconda fiducia al governo, la Camera torna a riunirsi soltanto il 16 novembre per votare una ben più decisiva fiducia, quella al nuovo Primo ministro Benito Mussolini.

Parma, Oltretorrente, barricate in borgo dei Minelli, agosto 1922 [Archivio Foto Amoretti]
Parma, Oltretorrente, barricate in Borgo delle Carra e in via Bixio, agosto 1922 [Archivio Foto Amoretti]

Quello che succede dopo lo sciopero è un dramma annunciato.
Mentre in tutta Italia si moltiplicano gli arresti di sindacalisti e militanti socialisti e comunisti, il Pnf dirama una serie di direttive interne tese a risolvere definitivamente la partita.
A Livorno è Costanzo Ciano – padre del futuro genero del duce – a organizzare la rappresaglia: sono giustiziati nella loro abitazione i fratelli comunisti Gigli, Pilade e Pietro.
A Genova i morti sono quattro, l’obbiettivo dei fascisti è la distruzione del Consorzio autonomo del porto per ridare maggiore potere contrattuale agli industriali.

Ad Ancona, dove lo sciopero ha avuto successo, il deputato fascista Silvio Gai guida una durissima repressione prendendo di fatto il controllo della città.
Cadono militanti di sinistra a Padova, Parma, Brescia. Sei sono i morti ad Alessandria dove alla distruzione della camera del lavoro e all’occupazione dei municipi segue lo scioglimento della giunta comunale, così come a Firenze, La Spezia, Savona, Pesaro, Cremona, Piacenza, Verona, e in tanti altri piccoli e grandi centri.
A Milano il connubio fra fascisti e forze dell’ordine è evidente.

Camion e auto con fascisti occupanti il Palazzo Marino
Camion e auto con fascisti occupanti il Palazzo Marino in piazza della Scala, 3 agosto 1922 [Civico Archivio Fotografico, Milano]

Il prefetto Lusignoli da mesi interloquisce direttamente con Mussolini, polizia e camicie nere pattugliano insieme le strade, il “Corriere della Sera” attacca la giunta accusata di complicità con gli scioperanti. In questo clima è assaltato e occupato Palazzo Marino, sede del municipio, e termina così l’esperienza del sindaco socialista Angelo Filippetti,

un’azione che per il Procuratore generale non costituisce reato. A Milano si trova anche l’obbiettivo simbolico preferito dagli squadristi, la sede dell’“Avanti!”, distrutta – non senza combattimenti – per la terza volta in quattro anni.

Palazzo Marino occupato dai fascisti, 3 agosto 1922 [Civico Archivio Fotografico, Milano]
Il cavalier Villa e la madre del fascista Ugo Pepe, morto in un agguato comunista a Porta Romana, in piazza della Scala il giorno dell'occupazione di Palazzo Marino da parte dei fascisti, 3 agosto 1922 [Civico Archivio Fotografico, Milano]
Il bivacco dei fascisti nel cortile del municipio, 3 agosto 1922 [Civico Archivio Fotografico, Milano]
La consegna del municipio al commissario prefettizio Ferdinando Lalli, 4 agosto 1922 [Civico Archivio Fotografico, Milano]

Due città resistono su tutte.
Una è Bari dove il centro cittadino è difeso per giorni dagli Arditi del popolo.
L’altra è Parma, dove viene pesantemente intaccata l’aura di onnipotenza dello squadrismo. Gli antifascisti, organizzati militarmente dagli Arditi del popolo, impediscono per tre mesi l’ingresso in città a diecimila uomini capeggiati da Balbo. Mussolini, il 14 ottobre, gli ordina di smobilitare, avendo anche subito numerose perdite.

Nel complesso però l’agosto 1922 è un trionfo per il fascismo.
L’Alleanza del lavoro si scioglie subito dopo lo sciopero, buona parte della stampa auspica l’ingresso dei fascisti nel governo, mentre il piano di Facta di puntare ad una giornata riconciliatrice nell’anniversario della vittoria in guerra, il 4 novembre, è anticipato dall’annuncio del congresso nazionale fascista dal 24 al 26 ottobre a Napoli.

Parma, Oltretorrente, barricate in Borgo Bernabei, agosto 1922 [Archivio Foto Amoretti]
Parma, Oltretorrente, barricate in Borgo delle Grazie, agosto 1922 [Archivio Foto Amoretti]

Dopo un settembre di sangue che ha visto otto parlamentari antifascisti aggrediti e numerosi altri minacciati, il 4 ottobre Balbo e De Bono pubblicano su “il Popolo d’Italia” il regolamento della neonata milizia del partito, sancendo di fatto l’organizzazione delle camicie nere in un esercito privato. Seguono le solite rassicurazioni dei vertici del Pnf sull’assenza di un piano eversivo che invece comincia a essere preparato nei dettagli.
La prima riunione che discute la marcia è del 16 ottobre. Un secondo incontro si tiene il 18, a seguito del quale i quadrumviri Emilio De Bono e Cesare Maria Devecchi hanno persino modo di ottenere udienza con la Regina madre per chiederle di intercedere con il figlio, il Re Vittorio Emanuele III.
 
 

Video tratto dal film La Marcia su Roma, 1962
diretto da Dino Risi, con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi
Filmauro

Alla riunione del 20 ottobre a Firenze la marcia è preparata militarmente con la divisione del paese in dodici zone operative, l’individuazione dei relativi responsabili e delle direttrici per convergere su Roma. Perugia viene scelta come sede da cui il quadrumvirato – che oltre ai De Bono e Devecchi comprende Michele Bianchi e Italo Balbo – dirigerà le operazioni.
Il piano prevede la concentrazione dei fascisti a Napoli in occasione del congresso, il rientro nelle diverse province e l’occupazione definitiva di amministrazioni e istituzioni locali – municipi, prefetture e questure – per annullare ogni possibile resistenza antifascista, solo in seguito a ciò è

prevista la convergenza su Roma dove lo stesso Mussolini dovrà arrivare a giochi fatti. Gli obbiettivi primari sono i territori, come la Toscana, dove maggiore è stata la forza d’urto dello squadrismo e si può confidare su rapporti diretti con prefetti, questori, ufficiali e soldati.
Il 24 ottobre, grazie anche ai numerosi treni speciali messi a disposizione dalle autorità, convergono su Napoli 30.000 camicie nere. Forze dell’ordine di ogni corpo partecipano alle dimostrazioni. All’adunata del Teatro San Carlo siedono fra il pubblico il prefetto, il rettore dell’università, il filosofo e senatore Benedetto Croce e numerose altre personalità.

Marcia su Roma, 1922
Marcia su Roma, ponte Salario, ottobre 1922

L’inadeguatezza di chi dovrebbe gestire la situazione è lampante: mentre Mussolini annuncia che «o ci daranno il governo o lo prenderemo, calando su Roma. Ormai si tratta di giorni e forse di ore», il primo ministro scrive al Re: «ormai tramontato progetto marcia su Roma».
Visto il precipitare degli eventi, il 26 ottobre Facta cerca di rimediare allertando le prefetture circa la minaccia insurrezionale, ma ormai è troppo tardi. Da settimane prefetti e questori ricevono da Roma indicazioni contraddittorie, l’autorità centrale è sempre più debole. Proprio il 26, il governo presenta le proprie dimissioni: gli ordini emanati quel giorno perdono perciò qualsiasi efficacia.
Il 27 scatta il piano eversivo.
Pisa è la prima città occupata. Sono assaltati e presi dalle camicie nere gli uffici pubblici e le prefetture di numerose città.
Fra i pochi casi di intervento della forza pubblica si annovera Cremona, dove nell’assalto alla prefettura cadono quattro fascisti.

Sono occupati quasi senza colpo ferire gli uffici delle comunicazioni, i municipi e le prefetture di Perugia, Bologna, Firenze, Ferrara, Verona, Piacenza, Brescia, Trieste, Udine, Gorizia, Venezia, Treviso, Alessandria. A Milano il prefetto Lusignoli dichiara di non avere altra scelta che cedere la sovranità all’esercito.
A Roma, il comandante della piazza, Emanuele Pugliese, predispone due linee difensive attorno alla città e blocchi sui principali snodi ferroviari, in linea con quanto sta discutendo il dimissionario Consiglio dei ministri nella notte fra il 27 e il 28 ottobre. La mattina del 28, infatti, viene comunicata a tutte le prefetture la proclamazione dello stato d’assedio. La pietra tombale di ogni possibile esercizio dell’autorità statale è un secondo comunicato governativo, diramato a mezzogiorno, che revoca l’ordine di poche ore prima, un passo necessario dopo il rifiuto del Re di controfirmare lo stato d’assedio. Agli assalti fascisti nel pomeriggio dello stesso 28 la forza pubblica risponde quasi solo a Genova e Bologna, dove al termine di quelle giornate i morti saranno una decina.

incontro di Mussolini con il Re d'Italia
Una rara immagine dell'incontro di Mussolini con il Re d'Italia Vittorio Emanuele III di Savoia subito dopo la Marcia su Roma

L’incalzare di questi convulsi avvenimenti non è sufficiente a farne di essi la «cavalcata travolgente» esaltata dalla propaganda nei vent’anni successivi.
Se nelle province dominano le camicie nere, i concentramenti di Monterotondo, Tivoli, Foligno e Santa Marinella previsti per il 28 ottobre faticano a concretizzarsi, anche a causa del blocco ferroviario comunque predisposto dal generale Pugliese.

Adunata fascista durante la consegna del municipio di Milano al commissario prefettizio
Adunata fascista durante la consegna del municipio di Milano al commissario prefettizio, 4 agosto 1922, poi cartolina del Pnf [Civico Archivio Fotografico, Milano]

In attesa che giungano a compimento le trattative per un nuovo governo – guidato da Giolitti o Salandra con sei ministri fascisti o da Mussolini stesso – i fascisti riescono a impedire a numerosi giornali, fra cui il “Corriere della Sera”, di uscire il 29: l’obbiettivo è evitare narrazioni non gradite degli avvenimenti. La gran parte della stampa non fascista riprenderà regolarmente le pubblicazioni solo dal 3 novembre.
Il 29 è il giorno decisivo.
Verificata l’indisponibilità sia di Vittorio Emanuele Orlando che di Antonio Salandra, il Re non può che affidare il governo a Mussolini che, da Milano, ha seguito lo sviluppo degli eventi.

Emblematico che a dare notizia della chiamata reale al futuro duce sia il presidente di Confindustria Ettore Conti.
Nella notte fra il 29 e il 30, mentre Mussolini viaggia in treno verso la capitale, le colonne composte da circa sedicimila camicie nere ricevono finalmente l’ordine di discendere a Roma, dove saranno alloggiate in scuole e caserme messe a disposizione su ordine del Re. I blocchi predisposti dal generale Pugliese sono spariti già nel pomeriggio del 28 e a difendere la capitale resta il Comitato di difesa proletaria nato poche settimane prima.
In assenza di obbiettivi chiari e intenzionati a vendicarsi dell’accoglienza ricevuta a Roma nel maggio 1921, i fascisti marciano verso i quartieri popolari di San Lorenzo, Testaccio, Prenestino.

Mussolini con i quadrumviri della Marcia su Roma: Michele Bianchi, Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi
Fascisti nel saluto romano, Marcia su Roma [Fonte Archivio Luce]

Dai tetti di Borgo Pio si spara sui camion in corsa, nel quartiere operaio di Trionfale la polizia copre la fuga delle camicie nere accerchiate. La violenza fascista si sfoga allora sulle abitazioni degli antifascisti più noti, fra le quali quelle degli onorevoli Nitti e Bombacci e dell’ardito Argo Secondari, ferito gravemente in casa sua. Complessivamente la questura conterà a Roma 22 morti, altri 20 ridotti in fin di vita e 50 feriti gravi.
La mattina del 30 ottobre Mussolini incontra il Re a cui consegna nel pomeriggio la lista dei ministri: formalmente si tratta di un governo di coalizione con nazionalisti, popolari, liberali e democratici, nel quale Mussolini cumula le cariche di presidente del Consiglio, ministro dell’interno e degli esteri.

Le camicie nere presidiano l'ingresso del Quirinale
Le camicie nere presidiano l'ingresso del Quirinale

Il segretario del Pnf Michele Bianchi e il quadrumviro Emilio De Bono sono rispettivamente segretario generale del Ministero dell’Interno e direttore generale di polizia. Il Partito nazionale fascista ottiene così le chiavi della gestione dell’ordine pubblico.
L’annuncio del governo Mussolini non spegne i disordini.
Il 31 sono distrutte le camere del lavoro di Bari e Torino, dove il giorno dopo è attaccata la sede dell’Alleanza Cooperativa; altri morti si contano nuovamente a Brescia. Le azioni di forza contro le amministrazioni comunali non fasciste proseguono fino a quando, a novembre, praticamente non esistono più giunte comunali socialiste.

Deve ancora andare in scena ancora l’ultimo atto della resa dello Stato al fascismo, il più simbolico e umiliante per le istituzioni italiane.
Il 31 ottobre migliaia di camice nere sfilano davanti ai simboli patriottici, l’Altare della Patria, il Milite ignoto e il Quirinale per ricevere il saluto ufficiale del Re, alla presenza dei reparti schierati di carabinieri, esercito e marina e con l’accompagnamento della banda dei bersaglieri.
Il 7 novembre tutte le città ritornano sotto il controllo dell’autorità civile ma le violenze continueranno nei mesi e negli anni successivi: a Torino a dicembre la morte di due fascisti, a seguito dell’aggressione a un militante comunista, provoca una rappresaglia che fa undici morti fra gli antifascisti.

Mussolini pronuncia in Parlamento il suo discorso
Mussolini pronuncia in Parlamento il suo discorso, 17 novembre 1922

Il 17 novembre, quando Mussolini pronuncia in Parlamento il famoso discorso del «bivacco di manipoli», l’incompiuta democrazia del Regno d’Italia esiste ormai solo sulla carta. Con le sue parole il duce pone la legittimità del suo governo sull’uso della forza. Sono queste le premesse che renderanno possibile, in breve tempo, la fine dello stato di diritto e la costruzione della dittatura.

Fonti

Bibliografia minima:
• Lussu Emilio, Marcia su Roma e dintorni, Parigi 1931
• De Felice Renzo, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1966
• Vivarelli Roberto, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, volume III, Il Mulino, Bologna 2012
• Gentile Emilio, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2017
• Franzinelli Mimmo, Storia e mito della marcia su Roma, Mondadori, Milano 2022
• Albanese Giulia, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2022

Per la gentile concessione delle immagini, si ringrazia il Civico Archivio Fotografico di Milano e l’Archivio Foto Amoretti di Parma.

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