È il 12 luglio 1943, due giorni prima gli Alleati sono sbarcati fra Agrigento e Licata e ora spingono nell’entroterra per fiaccare la resistenza italiana e quella, ben più consistente, della Wehrmacht. In una pausa degli scontri, alcuni civili di Canicattì escono da un rifugio, scorgono divise in lontananza e vanno loro incontro festanti. Non sono i liberatori, ma la 15. Panzer Grenadier Division. Una mitragliata falcia 6 contadini e braccianti siciliani.
È il 5 maggio 1945, dieci giorni prima è stato lanciato l’ordine di insurrezione generale, da una settimana sono stati giustiziati Mussolini e alcuni gerarchi. Le truppe tedesche si sono arrese in Italia, non ancora in Europa. Un battaglione di Waffen SS è ai piedi delle Alpi Carniche, diretto a Tolmezzo per poi prendere la via dell’Austria. Proviene da Avasinis, dove tre giorni prima ha fatto strage di 19 uomini e 32 donne. Attraversando Cavazzo, dopo una serie di violenze catturano 2 donne e 2 partigiani, uccidendoli poi a Somplago.
Sono la prima e l’ultima fra le stragi accertate in Italia fra il 1943 e il 1945 e il contesto è il medesimo, una ritirata. Rispettivamente, la prima e l’ultima. Nel mezzo ci sono oltre 5.800 episodi di violenza nazista e fascista contro civili o partigiani inermi, escludendo tutti coloro – fra questi ultimi – che muoiono in combattimento. Le vittime sono oltre 24.000, come documentato dall’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (www.straginazifasciste.it)
Per comprendere quanto accade nell’Italia settentrionale fra la terza settimana di aprile e i primi di maggio del 1945 serve innanzitutto inquadrare gli eventi e le decisioni prese dal lato tedesco. Il 20 aprile il generale Heinrich von Vietinghoff-Schell, che ha sostituito il convalescente Kesselring al comando del Gruppo di Armate C, ordina la ritirata generale oltre il Po, per raggiungere le linee predisposte lungo l’Adige e sui crinali prealpini.
Il Führer, dal bunker della Cancelleria a Berlino, aveva tassativamente proibito questo ripiegamento. La Wehrmacht, che dal 9 aprile è incalzata dagli angloamericani con il valido supporto delle formazioni partigiane, resiste, oltrepassando il Po solo il 23. Da quel momento in poi, quindi sei giorni prima della resa firmata a Caserta, entrata poi in vigore il 2 maggio, le truppe tedesche dilagano nella Pianura Padana e verso le montagne.
Le ultime settimane della Seconda guerra mondiale in Italia non registrano, numericamente, l’apice della violenza perpetrata dai nazisti e dai fascisti della Repubblica sociale in venti mesi di occupazione. Tuttavia, la furia sconsiderata verso persone, cose e bestiame diviene uno dei mezzi privilegiati per aprirsi la strada. D’altronde, di «fanatica determinazione» nel raggiungere l’obiettivo parla un ordine del Comando supremo della Wehrmacht diramato il 26 aprile.
La violenza nazista, con quella autonoma fascista ormai in posizione residuale, continua a dispiegarsi in modi, tempi e forme differenti, muovendo da molteplici presupposti e circostanze. Tuttavia, sull’orlo del baratro e con la necessità impellente di porsi in salvo varcando i confini, manca qualsivoglia freno attivabile dai codici, scritti o meno, insiti in un sistema di ordini e in una linea di comando da rispettare. Anzi quel sistema, che già nel settembre 1943 aveva dimostrato i suoi effetti più nefasti in Campania, subisce una – se possibile – ulteriore radicalizzazione.
La catena di comando da Berlino è saltata e sempre più si tratta dell’iniziativa di singoli comandanti o soldati allo sbando. Non c’è più un nemico, vero o potenziale, da impaurire e castigare, eppure fra aprile e maggio non mancano, insieme a ingenti devastazioni, i mezzi più lugubri che hanno segnato i mesi precedenti, come l’esposizione dei cadaveri di cui si rendono responsabili anche gli ultimi fascisti repubblicani.
Accade fra l’altro nel Bolognese, con il capoluogo raggiunto dagli Alleati il 21 aprile. Qui spicca più che altrove uno dei caratteri dell’ultima violenza: si massacra per eliminare in extremis il maggior numero di nemici ancora tenuti prigionieri ed è lo strascico di un’azione in corso da tempo. A cavallo fra marzo e aprile, presso Imola e a Medicina, vi sono una quarantina di fermi di partigiani o presunti tali. Alcuni liberati, altri tradotti in carcere, quasi venti fucilati. Alla periferia di Bologna, lo scalo ferroviario di San Ruffillo viene individuato, a partire da febbraio, come luogo eletto per la fucilazione di detenuti tratti dal carcere di San Giovanni in Monte. Sono oltre 130 i cadaveri lasciati lungo i binari in nemmeno tre mesi, 39 dei quali fra il 4 e il 17 aprile.
L’Emilia è, insieme alla Lombardia, l’ultimo pezzo di Italia occupata in cui la violenza fascista continua ad agire anche svincolata dall’alleato nazista. Diverse le motivazioni, a cominciare dallo spirito di emulazione che ha pervaso tanti ragazzi e uomini di Salò. Asserragliati nelle città, sempre più isolati dalla popolazione e sospettosi verso chiunque, ancora a fine inverno esercitano una forma “classica” di violenza, marcatamente verso il nemico politico: il 19 marzo i militi di una Brigata Nera traggono 10 detenuti dal carcere di Modena, uccidendoli per strada.
Nemmeno i fascisti vanno esenti dalla deriva finale di brutalità e dalla rabbia scomposta che infiammano Wehrmacht e SS, e non si tratta solo dei cecchini che, anche nei primi giorni di festa dopo la liberazione, falciano chiunque passi lungo le strade dei grandi centri urbani. Era già accaduto nell’agosto precedente a Firenze, per la prima volta in maniera così massiccia. A Torino, abbandonata da nazisti e fascisti nella notte fra il 27 e il 28 aprile, i cecchini mietono vittime tra il 26 aprile e l’11 maggio e il picco si registra tra il 27 e il 30 aprile nella zona centrale della città.
Oltre alla particolare evidenza di questo fenomeno, la situazione attorno al capoluogo piemontese rimane quanto mai delicata per diversi giorni, anche per via della cospicua presenza di partigiani confluiti dalle valli circostanti. A nord-est di Torino, fra Cavaglià e Santhià, mentre è in atto una tregua, qualche colpo di pistola fa scattare una vera e propria caccia all’uomo, con quasi 60 vittime fra il 29 e il 30 aprile ad opera di una divisione da montagna della Wehrmacht. Sono invece 67 a Grugliasco, nella prima cintura del capoluogo, nel solo 30 aprile.
C’è anche una violenza di marca fascista, o comunque con la partecipazione attiva della forze della Rsi, spiccatamente vendicativa, ultimo rigurgito di guerra civile con una proiezione verso il futuro dove la collera per la sconfitta si confronta con la determinazione di quelli che stanno per diventare i vincitori, quei partigiani che da febbraio sono tornati a marcare seriamente la loro presenza.
Una concentrazione di stimoli che sta già alla base di un precedente caso di azione e reazione avvenuto a Cravasco, in Liguria: fra il 22 e il 23 marzo nazisti e fascisti fucilano 18 uomini prelevati dal carcere genovese di Marassi, come ritorsione per l’uccisione di 9 SS durante un precedente rastrellamento. Nello stesso luogo, il 4 aprile i partigiani fucilano 39 fra italiani e tedeschi su cui avevano in precedenza messo le mani. Esempi di rappresaglia e controrappresaglia strettamente connesse ve ne sono anche nei giorni immediatamente precedenti o successivi alla Liberazione, come a Collegno, nei dintorni di Torino, il 1° maggio: in risposta alla strage di Grugliasco, civili e partigiani fucilano 29 militi della “Littorio”, presi prigionieri qualche giorno prima.
La violenza finale più dura e duratura si consuma nel Nord-Est e la spiegazione riposa innanzitutto in una scelta strategica nella ritirata tedesca. Ormai praticamente senza alcuna incombenza di combattimento, un numero impressionante di soldati e di SS riempie la fascia pedemontana veneta e friulana e sciama lungo le statali di fondovalle in direzione dei valichi verso l’Austria.
Raccapriccianti sono i dati per il Veneto: dodici eccidi in provincia di Padova solo fra il 25 e il 26 aprile, 10 nei due giorni precedenti nel Veronese, tutti estranei a reazioni ad eventuali attacchi partigiani, con oltre 150 vittime; prima era toccato a Rovigo, sulla via del ripiegamento dopo la rottura del settore orientale del fronte.
La pianura vicentina e padovana è la zona dove i partigiani, scesi dai monti nell’autunno precedente, sono meglio strutturati e attivi. Colpiscono coloro che si ritirano, ma la reazione è indiscriminata e spropositata: a una serie di piccoli, e non sempre fruttuosi, attacchi fra Saonara e Villatora, i tedeschi replicano con 45 civili uccisi. La minaccia dei “ribelli”, insieme al senso di frustrazione, può spiegare l’esplosione di violenza a Pedescala e Settecà, nel Vicentino, dove in neanche una manciata di giorni vengono massacrati 75 uomini e 7 donne.
L’ondata devasta poi le Prealpi ed è la volta del Bellunese, del Friuli e del Trentino Alto Adige. Qui la situazione è complicata non solo dalla vicinanza del confine, ma anche dalla condizione di queste province, sottratte alla giurisdizione del fascismo repubblicano a metà settembre 1943 e comprese in due “Zone di operazione” sotto il controllo tedesco. Se la presenza di istituzioni italiane è poco più che sulla carta, il fascismo repubblicano schiera anche qui alcuni suoi corpi armati, più o meno ufficiali, comunque fedeli e brutali servitori dei comandi locali di Polizia e SS.
Particolarmente feroce è quello del “Litorale adriatico”, guidato dal famigerato Odilo Globočnik, triestino di nascita, a cui si deve anche l’organizzazione e la gestione del lager della Risiera di San Sabba. Sin dal suo insediamento, non risparmia energie contro ogni categoria di nemici del Reich, circondandosi di reparti specificamente addestrati alla controguerriglia. Fra questi la 24. Waffen Gebirgs Division, quelle SS responsabili in Friuli sia della prima strage (Bretto di Sopra, 11 ottobre 1943, 16 vittime) che dell’ultima, il 2 maggio 1945 ad Avasinis.
Una scia di sangue si allunga su queste terre negli ultimi giorni di aprile 1945, mietendo decine di vittime civili lungo le vie della ritirata: prima di Avasinis tocca a Cervignano, Gemona, Feletto Umberto, Tricesimo e Ovaro. La catena di violenze è dovuta anche al fatto che qui si concentrano, sotto la spinta delle forze partigiane, divisioni tedesche provenienti sia dal territorio italiano che da quello jugoslavo, oltre che dai Balcani meridionali, insieme ai collaborazionisti italiani, sloveni e croati e ai reparti cosacchi e caucasici inquadrati nella Wehrmacht e nelle SS, seminatori di morte e distruzione in Carnia nei mesi precedenti.
Anche la principale direttrice verso il Reich, la valle dell’Adige, relativamente risparmiata nei mesi precedenti, vive nei giorni della rotta un’impennata di violenza. La provincia di Trento, fra il 25 aprile e il 6 maggio, piange due terzi delle sue vittime per mano nazista (e fascista). Il quadro non cambia passando in Alto Adige, dove è se possibile aggravato dalla non chiara collocazione futura di questo territorio, dal preesistente tangibile favore verso il nazismo, da una reviviscenza partigiana negli ultimi giorni sostenuta dal Cln di Bolzano, legittimo rappresentante del governo italiano, teso tanto alla liberazione quanto all’affermazione dell’italianità di queste terre.
Le ultime stragi dell’ultima ritirata si dispiegano in oltre 500 episodi, con 2.300 persone private della possibilità di veder sorgere la democrazia in Italia, dopo quasi cinque anni di guerra e oltre venti di regime. Ai superstiti, in massima parte donne e bambini, tocca non solo sopportare lo strazio e le difficoltà materiali, ma anche convivere con un lutto ancor più difficile da elaborare, per la disattenzione – talvolta – delle istituzioni, per la mancata punizione di crimini e criminali, per le fratture ancora oggi tangibili in alcune di queste comunità.
Fonti
Bibliografia minima
• Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), il Mulino, Bologna 2016.
• Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia. 1943-1945, Einaudi, Torino 2015 (2012).
• Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-1945), Donzelli, Roma 2006 (1997).
• Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca. 1943-1945: le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000 (1996).
• Friedrich Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma 1997 (1995).
• Tristano Matta (a cura di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Electa, Milano 1996.
Da questi volumi di carattere generale, è possibile trarre la bibliografia sugli episodi specifici.