di Daniele Susini
Anche se il “mito della passività ebraica” trova tuttora ampio riscontro nella società e nell’opinione pubblica, la storiografia mondiale ha confutato da anni quest’immagine errata e antistorica dell’ebraismo durante la Shoah. Questo è avvenuto grazie al lavoro di numerosi storici, da Isaiah Trunk a Aharon Weiss, ma in particolare di Yehuda Bauer, che ha introdotto la categoria della resistenza come Amidah (parola ebraica che rappresenta la preghiera in posizione eretta) oggi essenziale per riflettere su cosa abbia significato concretamente per gli ebrei resistere durante la persecuzione nazista. L’analisi di questa nuova categoria acquista valore se si espande il significato della Shoah, il genocidio degli ebrei, vale a dire comprendendo che questo progetto di annientamento non mirava solo all’uccisione fisica di ogni singolo ebreo vivente, ma includeva anche la volontà di cancellare ogni forma di ebraismo e ebraicità presente nei vari Paesi.

Per gli ebrei resistenti, quindi, qualunque forma di azione o comportamento di opposizione, di resilienza, di disobbedienza assume un valore molto più ampio, complesso e dinamico per la specificità della violenza subita, molto più radicale e pervasiva rispetto a quella che il nazismo mise in atto contro altri gruppi di persone, individui o “razze”.
Nel caso ebraico, quando si affronta il tema della resistenza, questo non può esaurirsi col solo ambito, della resistenza armata o politica, né a quello della resistenza civile, così come definita dallo storico Jacques Semelin: il processo spontaneo di lotta della società civile con mezzi non armati contro l’aggressione di cui tale società è vittima. Per questo è particolarmente interessante riflettere sulla definizione di Amidah, che può essere estesa ad includere tutti quei comportamenti che in qualche modo contrastarono o ritardarono la distruzione del popolo ebraico, o che temporaneamente ne migliorarono la qualità di vita, o comunque ne evitarono un peggioramento, attraverso comportamenti, di singoli o di collettivi, volti a mantenere la dignità umana anche in situazioni estreme.

Se la resistenza ebraica si è sviluppata in tutta l’Europa occupata, è innegabile che per la portata della violenza, le modalità di realizzazione del genocidio e la dimensione numerica e qualitativa delle comunità ebraiche, l’Europa dell’Est invasa dalla Germania nazista abbia costituito lo scenario più importante e variegato, con azioni molteplici di resistenza, dai combattimenti armati nelle foreste, alle rivolte nei ghetti e nei campi di concentramento o di sterminio, fino ad azioni che solo apparentemente potrebbero essere considerate minori.
I ghetti furono indubbiamente uno dei luoghi simbolo della resistenza ebraica, assumendo un’infinità di azioni eroiche e, quasi sempre, clandestine: dall’assistenza socio sanitaria in ospedali, mense, orfanotrofi e ospizi alla messa in campo di attività culturali svolte nei teatri, scuole e biblioteche, dalla pratica della borsa nera che ha alimentato decine di migliaia di reclusi, alla raccolta e diffusione di informazioni e documentazione di quello che accadeva in quei luoghi, al mantenimento della religione ebraica e la vita ebraica, alla raccolta di documenti, foto, archivi.

Attenersi ai precetti religiosi, cercare di preservare la propria identità, conservare la propria umanità e un barlume di vita quotidiana fu per alcuni l’unico modo per non perdere lucidità e per sottrarsi alla demolizione dell’umano del progetto nazista, volta alla distruzione della volontà della vittima e alla sua totale umiliazione. In questo senso, anche creare mense e ricoveri per gli indigenti in tutti i ghetti fu una forma di resistenza. Tali istituti furono creati sia in modo ufficiale, attraverso gli Judenräte o le associazioni ebraiche, sia mediante movimenti clandestini che si organizzavano nei comitati di caseggiato o condominiali (a Varsavia se ne contarono più di mille). Istituire o mantenere aperti gli orfanotrofi, dedicandosi a proteggere la vita dei più piccoli e indifesi, può essere annoverato tra le forme di resistenza. Il caso più emblematico di dedizione ai bambini è quello di Janusz Korczak, pseudonimo di Henryk Goldszmit, affermato pedagogista polacco e direttore dell’orfanotrofio del ghetto di Varsavia, che cercò fino alla fine di proteggere gli orfani del suo istituto, fino a condividere con loro, per non lasciarli da soli, la deportazione a Treblinka.

Un antico detto talmudico recita: è sul respiro dei bambini che studiano che si regge il mondo, tanto è forte il legame tra istruzione ed ebraismo. In questo senso, dunque, istituire scuole per gli studenti privati di tutto e affamati, allestendo le classi in cantine e scantinati, con i libri scolastici nascosti come si nasconderebbero armi, va considerata un’azione di resistenza. In quasi tutti i ghetti furono organizzate delle scuole che non avevano solo un fine scolastico, dal momento che in tanti diari di adolescenti vissuti nei ghetti o nelle testimonianze di sopravvissuti, emerge la straordinaria importanza delle lezioni, sia come momento di aggregazione sociale tra ragazzi e ragazze, che come una delle poche possibilità di avere ore spensierate, di allontanarsi dalla noia e dalla disperazione che caratterizzavano le loro vite.
Istituire le scuole, anche da un punto di vista simbolico, voleva dire pensare al domani, al futuro dei più giovani, ossia ribaltare l’immagine di sé e opporsi alla visione genocidaria dei nazisti. Tra le varie forme culturali e di intrattenimento la musica ebbe un ruolo speciale in molti ghetti, come Varsavia, Łódź e Vilna, solo per citare i più attivi. In questa attività si intrecciavano il bisogno di spensieratezza della popolazione e la necessità da parte dei musicisti di avere un lavoro remunerato. Questo produsse in vari ghetti intensi programmi musicali, sempre frequentati da un pubblico molto numeroso. Un’altra forma molto importante di resistenza fu la raccolta e lo scambio di informazioni su quanto accadeva nei ghetti e sull’andamento della guerra in generale. Quest’attività divenne una risposta abbastanza naturale quando fu materialmente impossibile fare altro: registrare gli avvenimenti rispondeva in parte all’esigenza di lasciare traccia di quanto avvenuto e denunciare quegli orrori.

Tra le altre forme di resistenza non vanno dimenticate le fughe o gli occultamenti, che vanno letti attraverso l’interpretazione che ci fornisce la storica danese Cecilia Felicia Stokholm Banke, «presero in mano il loro destino. Fecero tutto quello che poterono per salvaguardare i propri beni, raccogliere i fondi necessari all’operazione di salvataggio, arrivando a partecipare in prima persona all’organizzazione». Non abbandonarsi alla rassegnazione, combattere per la propria vita e quella dei parenti, anche a costo di grandi sofferenze umane fu un grande atto di resistenza, come sostenne il filosofo ebreo Emil Fackenheim: Il mantenimento da parte delle vittime di un briciolo di umanità non è solo la base della Resistenza, ma è già parte di essa.

La Resistenza armata
Vi fu Resistenza armata in alcuni ghetti medio-grandi come Varsavia, Vilna, Kaunas, Minsk, Będzin, Cracovia, Łódź, Białystok, Grodno e Leopoli, ma anche in ghetti più piccoli come Slonim, Sosnowiec, Švenčionys, Nesviž, Lahva, Novogrudok e Riga. Si contano gruppi organizzati in 91 ghetti bielorussi (tra gli altri, Njasviž, Lakhv, Kletsk, Slonim e Baranowicze) e in 17-18 polacchi (tra cui, oltre a quelli già citati, Będzin e Częstochowa). La presenza e la reale consistenza degli ebrei nella Resistenza partigiana è stata per molto tempo al centro di un acceso dibattito, in particolare nei territori orientali. In base alle stime fornite da Yehuda Bauer abbiamo questa composizione: nelle foreste dell’Est Europa presero parte alla resistenza tra i 23.000 e i 25.000 partigiani ebrei.

Gruppi organizzati di partigiani ebrei furono attivi anche in Slovacchia (1600 unità), Repubblica Ceca, Bulgaria, alcune migliaia (6000 unità circa) nelle file dei partigiani titini e qualche centinaio (600 unità del gruppo partigiano greco Eam-Elas (Ethnikón Apeleftherotikón Métopon-Ethnikós Laikós Apeleftherotikós Strátos, Fronte di liberazione nazionale-Esercito popolare greco di liberazione). Anche nell’Europa occidentale occupata è attestata la presenza di ebrei nei movimenti di Resistenza: in Italia, Francia, Belgio, Jugoslavia, Slovacchia e Grecia essi entrarono nei movimenti partigiani nazionali, ma in questi casi non si trattò di una Resistenza ebraica, sebbene anche qui sorsero brigate specificatamente ebree, come Armée juive e Main d’oeuvre immigré (Moi) in Francia e il Comité de défense des juifs (Cdj) in Belgio, che si impegnarono sia nei sabotaggi sia nel salvataggio degli ebrei.
Le immagini sono riprese da:
Daniele Susini, La resistenza ebraica in Europa Storie e percorsi 1939 – 1945, Donzelli, Roma, 2021.
Fonti
Bibliografia minima:
• Daniele Susini, La resistenza ebraica in Europa Storie e percorsi 1939 – 1945, Donzelli, Roma, 2021.
• Yehuda Bauer, Ripensare l’Olocausto, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009.
• James M. Glass, Jewish Resistance during the Holocaust. Moral Uses of Violence and Will, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2004.
• Vasilij S. Grossman – Il’ja G. Ėrenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici, 1941-1945, a cura di A. Lustiger, Mondadori, Milano 1999.
• Israel Gutman, Storia del ghetto di Varsavia, Giuntina, Firenze 1996.
• Henry Patrick (a cura di), Jewish Resistance against the Nazis, The Catholic University of America Press, Washington 2014