Vite parallele
Venuto a conoscenza dell’esistenza sua e del suo partito solo poche settimane prima della Marcia su Roma, nel 1933 Mussolini non può più continuare a reputare Hitler soltanto «l’idiota di Berlino». Un cambiamento di rotta è evidente anche dallo spazio che la stampa inizia a ritagliare per lui, sebbene nel contempo non esiti a stroncare il Mein Kampf, alla sua prima edizione italiana. Convinto com’è che il XX sarà il secolo del Fascismo, che l’Europa non potrà che essere fascista o comunque fascistizzata, Mussolini non può più ignorare quello che sta accadendo in Germania. Se l’affinità ideologica è indiscutibile, altrettanto lo è il senso di superiorità che il Duce riserva al Führer, mentre l’ammirazione di questi nei suoi confronti è profonda e autentica. C’è però dell’altro: Mussolini conosce il programma nazista e sa che, fra i punti qualificanti, vi è la riunione in un unico Stato di tutti i popoli di lingua tedesca. Quindi anche la vicina – per entrambi – Austria, governata dal cancelliere Engelbert Dollfuss, suo amico personale, e soprattutto l’Alto Adige, di cui da qualche anno sta forzando l’italianizzazione.
Iniziano così gli abboccamenti fra le due cancellerie, sebbene non ufficiali e gestiti spesso e volentieri da intermediari, mentre da Berlino aumentano le richieste di un incontro ufficiale. Mussolini lo ritarda il più possibile ma alla fine deve cedere: il 14 giugno 1934 Hitler sbarca al Lido di Venezia, lasciando la Germania per la prima volta dopo il 1914. Il protocollo, l’etichetta e la scenografia, soprattutto quando si tratta di regimi totalitari, sono parte essenziale dell’azione di uno Stato ma anche il termometro dei rapporti e degli equilibri. Sarà un incontro dal tono informale, «senza croci né medaglie» aveva disposto Mussolini stilando il cerimoniale, forse temendo che, se il parigrado Hitler le avesse indossate, le sue avrebbero sfigurato.
Comunque, il Duce in alta uniforme, stivali e fez si trova di fronte un Hitler teso e impacciato, in borghese, con scarpe, cappello e impermeabile quanto meno anonimi. Qualcuno tra i presenti lo definisce un «contadino sceso in paese la domenica con l’abito della festa»; un giornale umoristico francese rincara: «Sembrava il ragazzo di bottega di un idraulico». Mussolini non si abbandona a considerazioni sconvenienti, dovendo trattare questioni stringenti, ma bada a non scendere dal suo piedistallo: Hitler gli si avvicina sollevando il braccio per il saluto fascista, lui risponde con una stretta di mano.
L’allievo tranquillizza il maestro: nessuna mira verso l’Austria, tanto meno verso l’Alto Adige. Hitler sa di dover dare di sé un’immagine credibile, affidabile e rassicurante, covando tuttavia propositi di tutt’altro segno. Di lì a poco, infatti, dispone la “decapitazione” delle SA e ad agosto, con la morte di Hindenburg, assume anche la presidenza della Repubblica, procedendo rapidamente alla cancellazione di ogni elemento legalitario. La situazione sembra nel frattempo precipitare immediatamente oltre i confini del neonato Terzo Reich: in luglio il cancelliere austriaco Dollfuss rimane ucciso durante un tentativo di colpo di Stato da parte dei nazisti locali. Hitler si affretta a professare la sua estraneità ma Mussolini, che in quei giorni sta ospitando la moglie e i figli di Dollfuss a Riccione, invia quattro divisioni al Brennero, avviando la costruzione del “Vallo Littorio” sul confine ed ergendosi ufficialmente a protettore dell’Austria.
Appena iniziati secondo canoni ufficiali, i rapporti attraversano già una delle fasi più critiche: pur non potendo addossare alcuna responsabilità diretta a Berlino, la situazione in Austria è realmente preoccupante per l’Italia e il tono del Duce verso il Führer è sprezzante quanto mai in precedenza, né lo sarebbe stato successivamente. Il 6 settembre, inaugurando a Bari la Fiera del Levante, esterna un «sovrano disprezzo verso talune dottrine d’oltralpe», attaccando l’antisemitismo nazista per colpirne l’intero apparato ideologico.
Superata senza evidenti ricadute la crisi, una serie di circostanze avvia il processo che si compie fra il 1936 e il 1939, con l’allineamento politico e infine militare fra la Germania nazista e l’Italia fascista. Il legame fra i due dittatori va stabilizzandosi, mentre si smorzano e infine scompaiono supremazie e subordinazioni. Con l’invasione dell’Etiopia nell’ottobre 1935, l’Italia si attira la riprovazione della Società delle Nazioni, incrinando i rapporti con le principali potenze europee (Francia e Gran Bretagna) ed extraeuropee (Stati Uniti), fino a quel momento non insensibili alla fascinazione mussoliniana. L’unico ad appoggiare esplicitamente Mussolini è Hitler.
L’inefficacia e il rapido ritiro delle sanzioni economiche riducono il distacco del Governo italiano con le altre cancellerie e annullano l’emarginazione internazionale, ma non interrompono il processo di avvicinamento fra Italia e Germania, quanto meno modificano l’approccio politico e diplomatico dell’una verso l’altra. Un cammino che viene accelerato da una nuova situazione di tensione esplosa in Europa. Di poco successiva allo scoppio della guerra civile in Spagna, con l’immediato intervento (ideologico e militare) di Roma e Berlino a sostegno dei Falangisti di Francisco Franco, è infatti la stipula dell’accordo passato alla storia come Asse Roma-Berlino, siglato nella capitale del Reich il 25 ottobre 1936 dai Ministri degli Esteri Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop.
Poco c’è di sostanziale in questo atto, è una sorta di dichiarazione d’intenti in cui nulla è ravvisabile di scontato (e vincolante) nell’effettivo accordo fra i due regimi. Lo dimostra la diplomazia italiana, che per almeno un paio di anni ancora continua a destreggiarsi su più tavoli, non disdegnando gli ammiccamenti anglo-franco-statunitensi.
Mussolini non deflette dal suo vanto di primogenitura e superiorità, ma a questo punto è Hitler a sentirsi pronto per dimostrare al maestro le capacità e i risultati conseguiti. C’è un abisso fra l’imbarazzo mostrato a Venezia nel 1934 e la sicurezza ostentata dal Führer del Terzo Reich nel 1937, quando il Duce del Fascismo è invitato in Germania in visita ufficiale, accompagnato dal suo Ministro degli Esteri. A Venezia Hitler si guardava intorno spaesato, tre anni dopo a Berlino mira dritto al suo popolo e al destino millenario del Reich.
Hitler accoglie Mussolini a Monaco, prima grande città arrivando dall’Italia e soprattutto culla del Nazismo. Attraversando la Germania il Duce può ammirare, rimanendone sbalordito, come uno Stato sull’orlo del baratro in una manciata di anni abbia potuto costruire una potenza industriale e militare stupefacente.
Il clou del programma è a Berlino, il 28 settembre all’Olympiastadion edificato l’anno prima per ospitare i Giochi della XI Olimpiade, che tante soddisfazioni hanno riservato anche agli atleti italiani, mentre a Hitler l’imbarazzo di doversi fare da parte per non premiare atleti statunitensi di colore impostisi sui suoi. Prima di entrare nello stadio, il Duce taglia una folla oceanica inquadrata nell’antistante Maifeld.
Sotto una pioggia battente, il tripudio è totale: Mussolini per i tedeschi, glielo ha appena detto il loro Führer, è uno di quegli uomini che fanno la storia, non la subiscono. Che la prospettiva di un’alleanza sostanziale sia sempre più concreta lo dimostrano le parole pronunciate di fronte alle decine di migliaia di persone che gremiscono gli spalti dello stadio: Germania e Italia perseguono gli stessi obiettivi; l’Italia non dimentica che la Germania è stata l’unica a rimanerle vicina due anni prima, al tempo delle sanzioni; quando uno ha un amico non può che marciare con lui, fino alla fine.
Segue un ulteriore tassello sulla strada dell’alleanza organica: l’Italia aderisce al Patto anti-Comintern, altro accordo di marca più ideologica che sostanziale siglato dal Reich germanico e dall’Impero nipponico, a cui si aggiunge l’abbandono da parte di Mussolini della Società delle Nazioni, gesto già compiuto da Hitler.
A parole aggressività e bellicismo non sono ancora del tutto espliciti nei programmi nazisti e fascisti, anzi la capacità di mantenere la pace è rivendicata come un vanto verso l’Europa e il mondo intero. Le azioni hitleriane sono tuttavia differenti e sta mutando anche l’atteggiamento di Mussolini.
Il 1938, non solo leggendolo a posteriori, è l’anno in cui si affaccia la possibilità di un capovolgimento nei rapporti fra i due dittatori.
Mentre sono già in corso i preparativi per la visita di Stato di Hitler in Italia, il cui inizio è programmato per il 3 maggio, l’11 marzo accade qualcosa di inedito ma che, da lì in poi, diviene la prassi. Il principe Filippo d’Assia, fervente nazista, dal 1925 consorte della principessa Mafalda di Savoia (morta come Frau von Weber nel 1944 a Buchenwald), nonché sin dall’inizio mediatore nei rapporti fra i due Paesi, consegna al Duce una lettera del Führer con la quale si comunica che, il giorno successivo, inizierà le operazioni per ricongiungere la natia Austria al Grande Reich.
Mussolini tace, quindi acconsente, e due giorni dopo l’Anschluss è cosa fatta con Hitler che guida la parata della Wehrmacht per le strade di Vienna, rientrando così da fratello-padrone in quella città che, in gioventù, aveva decretato i suoi fallimenti professionali di aspirante artista e architetto.
Osservando i palcoscenici allestiti a inizio maggio 1938 fra Roma, Napoli e Firenze in occasione della visita di Hitler (e del Gotha del Terzo Reich), è difficile stabilire se e quando uno dei due abbia soggezione dell’altro.
Certo l’apparato scenografico e coreografico è imponente: il Führer deve rimanere colpito, se non stordito (almeno questo si spera) tanto quanto lo è stato il Duce in Germania l’anno precedente. Certo questi è in imbarazzo non tanto verso l’ormai ex allievo (che, comunque, viene fatto girare in carrozza e non su lussuose e potenti automobili), quanto perché, non essendo Capo di Stato e trattandosi di una visita ufficiale, in quasi tutte le occasioni deve dare la precedenza a Vittorio Emanuele III, che è anche imperatore grazie alle sue conquiste. Nonostante ciò, Mussolini riesce a togliersi la soddisfazione, immortalata dalle macchine fotografiche e cinematografiche, di non degnare di uno sguardo il “piccolo re”, riservando tutte le attenzioni al Führer mentre assistono dal palco d’onore alla parata militare lungo i Fori Imperiali, il 6 maggio.
Quali siano, a quel punto, tanto le intenzioni di Hitler quanto l’atteggiamento – ancora in parte ambivalente – di Mussolini, lo dimostra il susseguirsi dei fatti in quell’anno e nella prima metà del successivo. Annessa l’Austria e ri-militarizzata la Renania, l’espansionismo di Hitler guarda ai Sudeti, la minoranza tedesca all’interno dei confini della Cecoslovacchia, la cui integrità è tutelata da Francia, Gran Bretagna e Unione Sovietica.
Le cancellerie europee si mobilitano, sollecitando Mussolini a un ruolo da protagonista: tutto purché venga mantenuta la pace. A fine settembre 1938 viene convocata a Monaco di Baviera una conferenza, alla quale i due dittatori arrivano insieme: affinché Hitler non trascenda in ulteriori pretese (almeno così si crede), viene sacrificata l’unità territoriale della Repubblica cecoslovacca, cedendo alla Germania la regione dei Sudeti.
Hitler è (o meglio pare) soddisfatto, Chamberlain e Daladier, rappresentanti di Gran Bretagna e Francia, sono sollevati per aver scongiurato un conflitto, Mussolini ha ottenuto il massimo con il minimo sforzo, salvando l’amicizia con la Germania e vedendosi attribuiti gli allori di salvatore della pace in Europa. Non disdegna certo una tale esposizione mediatica, ridondante anche nella stampa italiana. Quello che però lo disturba è che al suo nome vengano abbinati ideali pacifisti, impegnato com’è a infondere negli italiani una tempra guerriera. Non è solo un puntiglio, bensì la prova di una metamorfosi in atto.
D’altro canto, Hitler mostra di essere tutt’altro che soddisfatto e il 15 marzo 1939 invade la Cecoslovacchia, annettendosene una parte sotto forma di Protettorato di Boemia e Moravia e lasciando formalmente indipendente la Slovacchia, retta tuttavia da un regime collaborazionista. Si intravede, a quel punto, un cambio anche negli equilibri fra i due dittatori: Hitler colpisce da una parte, Mussolini risponde da un’altra. Con l’occupazione dell’Albania da pare dell’Italia un mese dopo, certo motivata da ragioni strategiche e di prestigio, sembra che il Duce cominci ad arrancare inseguendo il Führer.
Da parte sua, questi ha definitivamente gettato la maschera, avanzando esplicite pretese verso la Polonia, al fine di acquisire il corridoio di Danzica.
D’altro canto Mussolini imprime l’accelerazione definitiva verso l’alleanza con Hitler. L’anno precedente, la visita del Führer aveva celato, sotto la patina del consenso e della messinscena, numerose resistenze – di variabile intensità – a questo passo: del re e della sua corte, di una parte della popolazione italiana a partire dall’aristocrazia, del pontefice e della Santa Sede (in maniera decisamente esplicita e ufficiale), di frange non secondarie delle gerarchie del regime.
Göbbels, al rientro a Berlino, aveva annotato sul diario con compiacimento di non avere più quei problemi in Germania; Mussolini certo ne soffriva e non temeva di esternarlo con i suoi intimi. In quel momento, tuttavia, incombono altre questioni, giacché è chiaro che Hitler non attenderà molto prima di scatenare una guerra. Tutti, politici e militari, sanno che l’Italia non è pronta, ma sono altrettanto consapevoli che Hitler non può più essere fermato.
Il 22 maggio 1939 a Berlino, assenti i due dittatori, i loro Ministri degli Esteri firmano il Patto d’Acciaio, stavolta un vero e proprio trattato di alleanza politica e militare fra l’Italia e la Germania, che impegna entrambe a intervenire l’una in sostegno dell’altra in caso di conflitto sia difensivo che aggressivo. Riguardo a quest’ultimo punto, Ciano fa presente a Ribbentrop che l’Italia, per almeno un altro paio di anni, non potrà essere pronta. Rimarrà basito, al pari del resto dell’Italia e dell’Europa, tanto fascista quanto antifascista, quattro mesi esatti dopo, apprendendo che l’Urss e il Reich hanno firmato un patto di non aggressione. Un «capolavoro» lo definirà nei suoi diari; il tragicamente necessario prodromo alla guerra che Hitler fa scattare nove giorni dopo.
Fonti
BIBLIOGRAFIA MINIMA:
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• M. Fioravanzo, Mussolini e Hitler. La Repubblica sociale sotto il Terzo Reich, Donzelli, Roma 2009.
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