FANTI E ALPINI IN RUSSIA, PARTIGIANI IN ITALIA

Dalla steppa alla macchia

È la notte fra il 21 e il 22 giugno 1941.
Mussolini sta dormendo, è a Riccione, come fa ogni qualvolta può per godersi un po’ di beneficio dal mare della sua Romagna. A svegliarlo, telefonicamente, è Galeazzo Ciano, suo genero e suo ministro degli Esteri, destato poco prima dall’ambasciatore tedesco in Italia latore – sempre via cavo – di una lettera personale del Führer al Duce, con cui il primo annuncia al secondo che è appena scattata l’operazione “Barbarossa”, l’attacco nazista all’Unione Sovietica.

Galeazzo Ciano insieme a Benito Mussolini e Adolf Hitler
Galeazzo Ciano insieme a Benito Mussolini e Adolf Hitler
Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue bombarde.
Mario Rigoni Stern, "Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia"

«Io non oso svegliare nemmeno il cameriere, di notte. I tedeschi non hanno ritegno a farmi saltare giù dal letto», sembra abbia detto uno stizzito Mussolini. Non c’è in realtà alcuna sorpresa, l’idea di Hitler era nell’aria da tempo e già c’era stato qualche abboccamento per concordare il contributo dell’Italia fascista alla crociata anti-bolscevica della Germania nazista. Ma la sveglia notturna suona come una lesa maestà, un affronto dell’ex “allievo” al vecchio “maestro” con cui il Duce cerca di dissimulare tutto l’imbarazzo procuratogli dall’ormai inarrestabile preponderanza del Führer.

Per gli storici è la pietra tombale di un anno e poco più di sogni di guerra parallela, soppiantati dalla disarmante realtà di una guerra subalterna. Per i fanti e gli alpini italiani, fra cui alcuni che portano le cicatrici del disastro in Grecia nell’autunno precedente, è l’inizio di un calvario concluso, dopo una tragica ritirata, rimettendo piede in Italia nella primavera 1943.

Alla fine ne mancheranno all’appello quasi centomila, fra chi ha perso la vita in combattimento, chi è morto congelato durante il ripiegamento, chi – anche negli anni successivi – non ha retto la prigionia sovietica, dalla quale gli ultimi rientrano nel 1954.

Video, “Tornano in Italia…
prigionieri dalla Russia”
[Fonte Archivio Luce]

Tante delle loro tombe, in Italia, portano solo un nome e una fotografia, perché il corpo non è mai stato ritrovato. Anche se, di tanto in tanto, ancora oggi ne continuano a tornare.

La corsa di Mussolini per accodarsi a Hitler, e agli altri satelliti del Reich, si compie in poche settimane, tanto basta in piena estate 1941 per destinare alle steppe ucraine il Corpo di spedizione italiano in Russia, 62.000 uomini con una risibile presenza di truppe alpine, distribuiti su tre divisioni. A comandarli è, in sostituzione del convalescente Francesco Zingales, Giovanni Messe: l’anno successivo sarà in Tunisia e a lui scriverà Mussolini a metà maggio 1943, ordinando di cessare (definitivamente) le operazioni in Africa settentrionale e comunicandogli la nomina a Maresciallo d’Italia, l’ultimo della nostra storia, prima che cada in mano britannica. Da settembre sarà di nuovo a casa, nell’Italia liberata a fianco di Badoglio e del re, per essere poi destinato alla guida del Regio Esercito.

Giovanni Messe
Giovanni Messe
Bersaglieri a Stalino (antica denominazione della città di Donetsk)
Un carro armato L6/40

Tanti fiumi da sorpassare per i soldati italiani, destinati al settore meridionale della linea del fronte: Dnestr e Bug all’inizio, e chissà quanti giovani trentini, triestini e giuliani ne avevano sentito parlare dai loro padri, che lì avevano combattuto venticinque anni prima, in divisa austroungarica ma sempre contro la Russia, allora zarista. Poi altri corsi d’acqua e bacini, piccoli e grandi, come il Donez; ancora, il Dnepr e infine la grande ansa del Don, che li avrebbe bloccati. Passato qualche altro centinaio di chilometri, perché qui le distanze difficilmente si contano in unità e nemmeno in decine, c’è infatti un altro grande fiume, il Volga, e sulle sue sponde Stalingrado, dove sarebbe andata a sbattere la Wehrmacht.

Prigionieri di guerra italiani sul fronte orientale, 1943
Prigionieri di guerra italiani sul fronte orientale, 1943

Lo sforzo è notevole e talvolta fruttuoso, ma gli uomini non bastano e, anche su sollecitazione del Führer, nell’estate 1942 si cambia. Nel frattempo a Izbushensky si consumano contro l’acciaio sovietico le ultime cariche eroiche di onorevoli vestigia di una guerra d’altri tempi, come il glorioso “Savoia Cavalleria”.

Video, Truppe italiane in Russia, 1941
[Fonte, Archivio Luce]

Il Csir diventa Armir, un’armata di 230.000 uomini agli ordini dell’anziano Italo Gariboldi, disseminati su un fronte di 270 km. Le divisioni non sono più tre ma sette, fra cui le alpine “Julia”, “Tridentina” e “Cuneense”. Si scende dal treno a qualche migliaio di chilometri dalla linea del fuoco, dopo quasi un mese di tradotta fra stazioni piene anche di vittime del nazismo, prima che questi tre reparti, autotrasportati solo sulla carta come presto si rendono tutti conto, proseguano per il Caucaso.

Gariboldi ARMIR
Gariboldi ARMIR vicino al fiume Don, 200 chilometri (120 miglia) a nord di Stalingrado, autunno 1942 [Fonte, Il Dipartimento di Storia dell'Accademia Militare degli Stati Uniti]

Ma i comandi tedeschi, a cui spetta l’ultima parola a livello operativo, le dirottano verso il placido Don; a piedi, con zaino affardellato, muli, sci e attrezzatura da roccia nella canicola tipica delle steppe solcate da corsi d’acqua, dove l’estate è molto breve ma insopportabile, triste presagio di quanto peggiore si può rivelare la stagione opposta.

Video, estratto dal film
“Italiani Brava Gente”, 1965

Comincio a guardare i tedeschi con odio. La mia ignoranza è catastrofica. Non so nulla dei campi di sterminio. Ma mi rendo conto che la guerra dei tedeschi non è la mia guerra. E questo sentimento mi spaventa, mi angoscia. Non avevo capito niente del fascismo, nulla delle leggi razziali del 1938. E chi non capisce nel momento giusto rischia di capire quando è troppo tardi.
Nuto Revelli, "Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana"
Gli alpini della Divisione Tridentina sfilano davanti alla tribuna delle autorità in piazza Castello a Torino, 25 maggio 1942
Gli alpini della Divisione Tridentina sfilano davanti alla tribuna delle autorità in piazza Castello a Torino, 25 maggio 1942 [Fonte, Archivio LUCE]

Nei primi mesi anche gli alpini e i fanti dell’Armir hanno modo di distinguersi, finché alle soglie dell’inverno 1942-1943 – i cui rigori, da quelle parti, non rispettano certo il calendario – l’Armata Rossa passa alla controffensiva, mentre continua a resistere a Stalingrado. Il settore italiano (che è anche ungherese e romeno, solo in piccola parte tedesco) viene investito dall’operazione “Piccolo Saturno”, scattata a metà dicembre, ma 270 km sono troppi affinché tutti ne vengano colpiti e se ne accorgano simultaneamente. Quando la fanteria inizia il ripiegamento, le truppe alpine sono ancora in linea, per un Natale e un Capodanno fra la neve e il sibilo della Katiuscia, la terrificante batteria di razzi sovietica. Il 16 gennaio 1943 è ancora segnato da accaniti scontri, ma il corpo d’armata è già accerchiato, ha un fianco scoperto e il suo comando ha dovuto abbandonare il posto perché sorpassato dal potenziale sia umano che meccanico dell’Armata Rossa.

Il giorno dopo, alle 6, Gariboldi dirama l’ordine di non muoversi, ma passano quattro ore e arriva il contrordine di partire entro le 17. Alla “Julia” tocca sacrificarsi quasi per intero, per proteggere lo sganciamento del grosso delle truppe. Un nome e una data segnano l’ultimo sforzo e l’epilogo di dieci giorni trascorsi a camminare scavalcando l’odierno confine fra Russia e Ucraina, sorpassando migliaia di compagni morti o moribondi senza poterli soccorrere, per non correre il rischio di diventare come loro, fermandosi ogni qualvolta necessario a rintuzzare l’attacco di qualche reparto dell’Armata Rossa o di qualche nucleo di partigiani, oppure cercando un improbabile riparo dai mitragliamenti aerei. Nikolaevka, 26 gennaio 1943, l’ultima battaglia per uscire dalla sacca: è l’ultima tremenda fatica, mezza giornata di fuoco continuo senza più forza per rimanere in piedi, l’ultima ecatombe, l’ultima occasione di vedere morire non solo i compagni ma anche gli ufficiali e i comandanti, perché in Russia sono morti anche i generali, come l’alpino Martinat.

Fronte del Don – Il Segretario del Partito reca ai combattenti dell’Armir i doni della Patria, 1942 [Fonte Archivio Luce]

Non più tane dentro cui dormire di giorno e da cui uscire di notte per sparare dopo aver scongelato le armi, non più isbe dentro cui cercare riparo dal gelo e dalle fucilate fra una marcia e l’altra; la baita a cui tornare non è più un miraggio per i pochi rimasti. Mancano “soltanto” 500 chilometri per arrivare in zona sicura, dove imbarcarsi sul convoglio per l’Italia; non ci sono più nemici che sparano, ma bisogna comunque muoversi per evitare che qualcuno possa ancora farlo. Ha scritto Nuto Revelli: «Le operazioni di rimpatrio si concludono il 24 marzo. Per trasportare il Corpo d’Armata Alpino erano stati necessari 210 treni; per il rimpatrio bastano 17 tradotte».

Soldato italiano a Kharkiv Bundesarchiv
Soldato italiano a Kharkiv [Fonte Bundesarchiv]
Era l’Italia. Nessuno avrebbe mai potuto significare con parole umane il senso di quel minuto. Il cuore stesso taceva, smarrito. Soltanto lo sfiorava un fervore di visione di pensieri gelidi e quasi da incubo.
Giulio Bedeschi, "Centomila gavette di ghiaccio"

Ai sopravvissuti toccano accoglienze differenti, a seconda del momento e del luogo: donne, ragazzi e ragazze dei Fasci omaggiano qualcuno, per conto della Patria, di ben due sigarette “Popolari”; altri trovano un binario morto di qualche stazione subito dopo il confine, tenuti a debita distanza da un’umanità con gli occhi sgranati che occupa la pensilina in cerca di notizie di un congiunto.

Motoscafo armato silurante MAS 528 sul lago Ladoga
La ritirata dell'ARMIR
Mi sono chiesto, non una ma cento volte, perché i gerarchi fascisti di allora (e quelli oggi ancora vivi) non sono accorsi sul Fronte russo a fare barriera, a buttarsi in prima linea contro le «orde bolsceviche». Questo era il loro momento. Hanno perduto una grande occasione! Hanno lasciato che a morire sul Fronte russo fossero i «poveri cristi», che poco o nulla sapevano del fascismo, e ancora di meno del comunismo e dell’Unione Sovietica.
Nuto Revelli, "Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana"

Che si rientri al Brennero o a Tarvisio, sono comunque zone di reclutamento delle truppe alpine, dove è difficile trovare case in cui non si aspetti il ritorno di un marito, di un figlio, di un fratello. E pensare che lassù l’Italia è appena cominciata, scene del genere si sarebbero ripetute dappertutto, fino alle estreme propaggini meridionali. I civili non si devono avvicinare, perché si teme la propagazione del tifo petecchiale, quindi tutti in campi contumaciali per la quarantena, prima di riunirsi ai reparti nei depositi. La ragione ultima è però un’altra: questi reduci, tutti tornati diversi da come erano partiti, irriconoscibili a se stessi non solo nel corpo, non devono parlare, un regime non può permetterselo, tanto più se claudicante come il fascismo a metà del 1943.

Alcuni non lo fanno subito, o forse mai, perché in condizioni tali da essere ricoverati, tanto in ospedali ordinari quanto psichiatrici. Chi ci prova non viene capito, spesso nemmeno in famiglia, e allora non resta che cercare un commilitone, reduce di qualche campagna precedente. Alcuni fanno anche altro, in quella primavera-estate 1943 passata, generalmente, in licenza di convalescenza: fra incubi notturni e pianti diurni, decidono comunque di imprimere, subito, quei ricordi su un diario.
Per alcuni reduci è il preludio al rientro in servizio, dopo la beffarda forzatura di parate nelle principali città italiane, ma poi arriva il 25 luglio e infine l’8 settembre.

Alpini

Allora qualcuno, come il sottotenente piemontese di Cuneo Nuto Revelli, compie una scelta, la scelta partigiana, sulla scorta anche della tragica “guerra rivelatrice” combattuta in Russia. Altri fanno quella opposta, come il sottotenente veneto di Arzignano Giulio Bedeschi, «Alpino, medico e scrittore», futuro comandante di una Brigata nera nel Forlivese. Ad altri ancora, come al veneto di Asiago sergente maggiore Mario Rigoni Stern, non è invece lasciata alcuna opzione e quella divisa non svestita è l’anticamera di una lunga prigionia nelle mani dell’ex alleato, come Internato militare italiano.
Bedeschi, Revelli e Rigoni sono soltanto tre fra i tanti, noti e meno noti, che hanno lasciato pagine di memoria e di racconto della tragedia di Russia, entrate da decenni nel patrimonio culturale nazionale così come nazionali sono stati il coinvolgimento e il lutto, sebbene ne abbiano sofferto in modo particolare le valli alpine, i cui paesi possono aver visto pressoché cancellata una generazione.

Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli nel dopoguerra
Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli nel dopoguerra [Fonte Fondazione Nuto Revelli]
Avevo due parabellum: il mio parabellum e il parabellum di Grandi, del mio comandante di compagnia. Poi avevo una pistole-machine tedesca, con le munizioni. Sentivo che mi sarebbero tornate utili e le ho poi portate all’8 settembre, in montagna, quando ho scelto la strada partigiana.
Testimonianza di Nuto Revelli dalla sesta puntata, "Tragedia sul Don", della trasmissione RAI L’Italia in guerra (Massimo Sani, 1983).

La scelta di Revelli prende corpo il 9 settembre, entrando nella sua caserma con la sua divisa: un ufficiale, che conosce bene, gli dice di cambiare strada, convinto che il Regio Esercito non avrebbe preso le armi contro l’ex alleato, divenuto occupante e di lì a poco in arrivo anche a Cuneo. E lui reagisce così, come ha testimoniato ne La guerra dei poveri: «… sono proprio in fondo al pozzo. Qui finisce il mio fascismo fatto di ignoranza e di presunzione, in questa caserma buia, per sempre. […] Mi tolgo la divisa, non la indosserò più». Sono parole di un ufficiale, nemmeno venticinquenne, in servizio permanente effettivo, sempre fra i primi nei corsi frequentati all’Accademia di Modena fra il 1939 e il 1941, che nel 1942 aveva chiesto insistentemente l’invio al fronte.

Nuto Revelli a Paraloup, con la sua brigata, nel 1944
Nuto Revelli a Paraloup, con la sua brigata, 1944 [Fonte Fondazione Nuto Revelli]

Finisce una storia di guerra, aperta con profonda e convinta devozione all’istituzione militare e a una Patria che si era stati portati a confondere con il Fascismo, e ne inizia una nuova. Non si tratta di rinnegare, ma di scegliere la parte in cui stare, portando in testa e nel cuore i ricordi della tragedia vissuta, delle menzogne del regime che aveva lasciato un’Italia «falsa e balorda che teme la verità», a cui si era creduto per anni fin dall’adolescenza euforica nei “Campi Dux”, o nei “Littoriali”; scegliendo anche in nome di quei compagni che non possono più farlo.

Quando ancora la Resistenza è in embrione, prima della maturazione, dei grandi rastrellamenti, della brigata di “Giustizia e Libertà” di cui diviene comandante, di comporre alla macchia un paio canti mai usciti dalla playlist dell’Italia democratica nei fatti e non a parole, Revelli prende contatti con il variegato mondo resistenziale delle origini, cerca e raccoglie armi, organizza; e costituisce insieme ad altri, prima ancora di risalire in montagna a solcare le “sue” valli per combattervi, una banda di pianura:

La nostra banda cresce di numero. L’abbiamo battezzata «1a Compagnia Rivendicazione Caduti». Rispuntano i morti di Russia: è quel peso sul cuore che ci spinge a sparare sui tedeschi e sui fascisti.
Nuto Revelli, "Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana"

Fonti

Bibliografia minima:
• Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia. 1941-1943, Bologna, il Mulino 2016.
• Arrigo Petacco, L’Armata scomparsa, Milano, Mondadori 2013.
• Thomas Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia, 1941-1943, Roma-Bari, Laterza 2009.
• Aldo Giannuli, Dalla Russia a Mussolini. 1939-1943. Hitler, Stalin e la disfatta nei rapporti delle spie del regime, Roma, Editori Riuniti 2006.
• Maria Teresa Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Bologna, il Mulino 2003.
• Nuto Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Torino, Einaudi 2003.
• Gerhard Schreiber, La partecipazione italiana alla guerra contro l’Urss. Motivi, fatti, conseguenze, “Italia contemporanea”, 191(1993), pp. 247-275.
• Nelson Cenci, Ritorno, Milano, Rizzoli 1981.
• Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Roma, Stato maggiore dell’Esercito-Ufficio storico 1977.
• Nuto Revelli, La strada del davai, Torino, Einaudi 1966.
• Eugenio Corti, I più non ritornano, Milano, Garzanti 1964.
• Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Milano, Mursia 1963.
• Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Torino, Einaudi 1962.
• Cristoforo Moscioni Negri, I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia, Torino, Einaudi 1956.
• Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia, Torino, Einaudi 1953.
• Aldo Valori, La campagna di Russia. CSIR-ARMIR. 1941-1943, Roma, Grafica nazionale 1950-1951.
• Giovanni Messe, La guerra al fronte russo. Il Corpo di spedizione italiano (C.S.I.R), Milano, Rizzoli 1947.
• Nuto Revelli, Mai tardi. Diario di un alpino in Russia, Cuneo, Panfilo 1946.

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